PEARL JAM – LIGHTNING BOLT
Una certa critica rimprovera ai Pearl Jam di essersi allontanati un po' troppo dalle sonorità particolarmente dure degli esordi, culminate in quello che viene considerato il loro capolavoro: l'album “Ten”. In realtà, benché il sound si sia in effetti ‘ammorbidito’, anche in seguito hanno dato alle stampe dischi di indubbio valore, basti pensare all’ottimo “Backspacer” (2009). Questo “Lightning Bolt”, che ne è il seguito, mette insieme i due aspetti di questa band: quello poderosamente rock con quello più intimista e d’atmosfera. Il risultato è sicuramente buono e il disco funziona, anche se a tratti si ha l’impressione che, trattandosi di un'istituzione come loro, si poteva fare qualcosa in più.
Dieci anni di attesa perché, dice lui, mancava l’ispirazione. Sting, sempre più vecchio e più saggio, ritorna ora con un album intenso, nel quale si percepisce un grande senso di nostalgia per la vita che passa, concetto che (come dargli torto), deve pesargli non poco. Pensato per un musical, “The last ship” è un disco molto suonato, dove strumenti antichi ed intense melodie si alternano a violini e cori folkloristici in un mix dal sapore realmente teatral-cinematografico. D'altra parte queste erano le intenzioni. Si tratta di un cd ‘gitano’, anche se spesso totalmente privo dell’elemento 'divertissement', che però in effetti ti permette di salpare verso mari lontani con l’impressione, a tratti angosciante, che si tratti di un viaggio senza ritorno. Una metafora della nostra esistenza? Ad ogni modo valido, anche se un po’ ostico.
CHER – CLOSER TO THE TRUTH
Dopo undici anni dall'ultimo album di inediti, Cher ritorna con un nuovo lavoro dove a farla da padrone, nuovamente, è il pop simil-‘Believe’ che le ha ridato una seconda giovinezza in termine di vendite. Avvalendosi della collaborazione di Paul Oakenfold (autore del non troppo riuscito brano di lancio “Woman’s World), dell'immancabile Diane Warren e addirittura di P!nk (che le regala ben due brani), questa leggenda vivente dimostra, alla veneranda età di 67 anni, di avere ancora una voce capace di incantare (basti acoltare “Sirens” e/o la cover di Miley Cyrus “I hope you find it”), oltre ad un’immagine assolutamente irresistibile (alla faccia dei mille lifting!). La parte dance, pur discreto-buona, è sicuramente meno intensa di quella dedicata alle ballads, dove l’artista dà il suo meglio, ma nel complesso il disco - specie se confrontato con alcuni suoi memorabili albums del passato (“It’s a man’s world”, “Heart of Stone”) - non è granchè.
Questo nuovo lavoro dei Placebo è la dimostrazione che non sono solo i loro due primi album a dover essere ritenuti validi. Partendo infatti dal singolo “Too many friends” e proseguendo in tutte le altre tracce, il gruppo snocciola un totale di 10 brani in bilico fra atmosfere gotico-dance alla Depèche Mode/Sonic Youth e rock elettronico dall’eco metallico tanto quanto la voce di Brian Molko. Difficile scegliere i pezzi migliori, forse i lenti, come: "Beginning the end" e/o "Bosco", lunghi e particolarmente emozionanti; ma anche l'energia profusa in quelli più veloci ("Scene of the crime", n.d.r.) ha un suo valore. E non vi è dubbio che il colore che rappresenta meglio questo disco è il grigio: un po' deprimente ma perfetto per le giornate autunnali.
Sono ormai piuttosto lontani i fasti del video di “Sing”, che li ha lanciati per davvero, piuttosto che quelli dei brani d'esordio del tipo “What does it always rain on me”, eppure i Travis – ad ogni nuovo album – riescono ad essere raffinati e ad incantare l’ascoltatore con un genere che non stanca mai: quel british pop-rock carico di atmosfere rarefatte e rime intelligenti che (quasi) solo loro sanno ormai proporre. Forse non proprio tutti i brani sono riuscitissimi ma questo “Where you stand”, di classe anche per quanto concerne la copertina e l’artwork all’interno del cd, contiene almeno 2 gioielli: la traccia numero 7 “A different room” e, per chi acquista la versione deluxe (completata da alcune esibizioni live), il brano “Anniversary”.
Uscito già da qualche mese, questo nuovo lavoro del gruppo di “Apologize” viene ora ricatapultato nelle zone alte delle chart grazie all’ottimo terzo estratto “Counting Stars*”, tra l’altro fresco numero uno delle classifiche inglesi davanti ad una sfilza di nomi di grosso calibro. Successo tutto meritato perché in effetti trattasi di un disco ben confezionato, dalla prima canzone all’ultima. Il genere è un buon pop-rock melodico made in USA, che non disdegna incursioni nell’elettronica. I testi sono curati e mai banali (come recita il titolo si cerca di risalire all’essenza/primordialità delle cose) e gli arrangiamenti, pur scarni se confrontati con certe produzioni americane odierne, comunque efficaci. Il tema portante del lavoro potrebbe essere una sorta di ‘terra selvaggia’, idea nella quale - peraltro - l'attuale sound del gruppo si colloca davvero molto bene.
ELTON JOHN - THE DIVING BOARD
Dalla fine degli anni '80 in poi un lungo periodo dedicato agli eccessi ed al trash (culminato con un inquietante duetto insieme a RuPaul) poi, nel 2001, la rinascita, grazie allo splendido "Songs from the
West Coast", cui hanno fatto seguito gli altrettanto validi "Peachtree
Road" (2004) e "The Captain & The Kid" (2006). Ora, quale ulteriore conferma della ritrovata 'retta via', è la volta di "The Diving Board", in cui il mitico Reginald collabora
insieme al fido paroliere di sempre: quel poeta di Bernie Taupin (colui che,
giusto per intenderci, gli ha regalato i testi più memorabili della sua lunga
carriera). Al solito ne esce un album malinconico eppure gioioso, intimo e toccante, all'insegna della buona musica e di tanti concetti profondi
che favoriscono la riflessione. Il tutto accarezzato dalla melodia del suo piano, unico protagonista in tre
pezzi strumental-sperimentali intitolati "Dream". Serie A.
KINGS OF LEON - MECHANICAL BULL
Il sesto album dei Kings of Leon, è quanto di meglio si possa trovare sulla scena musicale rock al momento. 11 tracce (13 nella versione deluxe) vibranti, tutte validissime e piene zeppe di emozioni, come peraltro anticipato dai singoli "Supersoaker" e, soprattutto, "Wait for me". Anche in questo caso, come per altri artisti, la scelta - se di scelta si può parlare - è quella di alternare brani dal piglio veloce e 'chiassoso' ad altri più lenti e morigerati, sempre e comunque valorizzati dalla voce di Caleb Followill. Il sound miscela sapientemente rock, blues e musica cosiddetta 'alternative', intrisa qua e là da echi vintage e in altri casi impreziosita da sonorità più moderne. I testi, spesso romantici altre volte più 'aggressivi', colpiscono nel segno. Insomma: per chi vuole acquistare un gran bel disco che rimarrà nel tempo questa è proprio un'occasione da non perdere.